Osservazione empatica e ascolto riflessivo del colloquio clinico (C. Serina) - Fiori per l'anima

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Antonella Napoli
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Osservazione empatica e ascolto riflessivo del colloquio clinico (C. Serina)

macrolibrarsi un circuito per lettori senza limiti


RIASSUNTO: Nell’approccio terapeutico classico il "sintomo" viene affrontato come un "male" da inseguire ed estirpare dall’ individuo.
Per comprendere il significato simbolico del sintomo è necessario assumere un atteggiamento olistico e considerare lo stato psicologico del paziente. Il sintomo, letto come tentativo di comunicare un disagio, una sofferenza, può essere considerato un processo evolutivo che non trova spazio per esprimersi all’interno dei codici di vita del paziente.
Il terapeuta diventa il catalizzatore dell’evoluzione del paziente e questo implica che egli riconosca il suo coinvolgimento emotivo e lo consideri elemento di conoscenza di sè e dell’altro, in un processo di distinzione di sè dall’altro.
L’atteggiamento riflessivo, sviluppato nel corso della terapia, consente di superare la visione giudicante e di concepirsi in un cammino di evoluzione dove a vecchie norme di vita se ne sostituiscono nuove, più vicine alla verità del "sentire".
In questa diversa prospettiva, nel colloquio, la comprensione dello stato emotivo del paziente permette di individuare il fiore che può aiutarlo a superare la sofferenza e il disagio.
La terapia e la prescrizione con i Fiori di Bach nasce dunque spontanea dall’ascolto della melodia dell’altro in noi, in un continuum che va dall’essere che vibra all’armonia del fiore, dalla vibrazione del fiore all’armonia dell’essere.

1. - Caratteristiche del colloquio "classico" medico/paziente: la gerarchia dei ruoli, diagnosi come individuazione del sintomo, la cura della malattia attraverso l’intervento diretto sul sintomo. Utilità e limiti
Quando consideriamo l’incontro fra psicoterapeuta o medico e paziente, immediatamente il nostro immaginario riproduce un’immagine dove il paziente è seduto o sdraiato, passivo, in attesa che l’altro si occupi di lui e scopra di che male soffre, prescrivendogli infine il trattamento per eliminare il male. Il paziente attende che il terapeuta scopra ciò che vi è in lui e che lui non sa.

In questo senso si perpetua una separazione che il paziente accetta perchè impara a considerarsi carente nella conoscenza del proprio corpo oppure in balia di virus, batteri, parassiti...
Egli non opera un ascolto, una riflessione, perchè non sa creare alcuna interazione, alcun collegamento con il proprio essere. Vive se stesso come "qualcosa" che macchinosamente macina, metabolizza, secerne, si muove.
All’improvviso qualche parte inizia a funzionare male, aggredita magari da qualche entità microscopica, e l’individuo soffre.
Chi sa cosa avviene al suo corpo?
Anche il medico impara a ricercare per difendere il suo paziente dall’aggressione dei "mali".

In questa prospettiva, il paziente non viene considerato come una totalità, come colui che pensa, che si emoziona, che sogna, che interagisce con il mondo esterno e con le proprie "impostazioni" di vita, bensì come colui che non ha molto a che fare con il suo corpo, con ciò che accade al suo organismo, alla sua mente, al suo spirito.

Per sintetizzare, possiamo dire che nella medicina classica si tende ad affrontare il "sintomo" come un "male" da inseguire ed estirpare dall’individuo.
Il sintomo diventa un estraneo, proveniente dall’esterno.

Non si vede un rapporto tra l’individuo e il sintomo. Il sintomo è legato all’organo, in una visione particolaristica.
L’organo è legato al corpo, insieme di parti che sono separate dalla mente. Il terapeuta in questa prospettiva individua il sintomo, lo definisce attraverso la diagnosi. Tramite la terapia cerca di colpirlo e di eliminarlo. L’osservazione del terapeuta è in funzione del sintomo e non dell’insieme delle emozioni e dei vissuti del paziente.

Il terapeuta e il paziente sono due entità ben distinte e gerarchicamente collocate: il paziente malato porta in sé il male e può solo essere carico di negatività e impotenza, ignaro e non partecipe del processo di guarigione... come del resto non lo è stato del processo che lo ha portato ad ammalarsi.
Il terapeuta in questo caso si costituisce solo come colui che ha il potere di individuare la malattia e di sconfiggerla
.
Questo è l’immaginario psicologico che si viene a creare di conseguenza: la separazione che è presente fra mente e corpo è riproposta nella separazione tra bene/medico/terapia e male/paziente/malattia, in un "gioco di potere" da parte del primo e di impotenza da parte del secondo.

1.1 - Interazione tra individuo, mondo interiore e mondo esterno
E’ necessario cambiare i presupposti di partenza e osservare con nuova attenzione l’insieme "terapeuta - paziente" come una totalità. Riflettere su come la psiche influenza il corpo e viceversa, e su come l’individuo interagisca con il mondo circostante attraverso le sensazioni, le emozioni, i pensieri, la cultura, le abitudini, l’alimentazione.

Se abbiamo paura, possiamo osservare le modificazioni dell’organismo (e dell’organo) in conseguenza a questo stato d’animo oppure, da un sintomo, possiamo risalire ad un’emozione, ad un pensiero ricorrente che lo determinano o lo influenzano. Inoltre, l’organo chiamato in causa non è isolato, ma interagisce con altri organi e sottolineo ancora, interagisce con la mente, con le emozioni del soggetto. Emozioni anch’esse non isolate, ma che nascono e seguono un percorso nell’individuo. Quest’ultimo, come un "elaboratore di dati", è impegnato continuamente nello "scambio" e nella codificazione dell’esperienza attuale e di quella già memorizzata nella sua mente.
E’ quindi necessario modificare il rapporto medico - paziente e inserirlo all’interno di un "mandala" dove non vi è l’uno senza l’altro, dove le due funzioni si compenetrino e dove il medico sia anche identificato empaticamente con il malato e, viceversa, anche il malato sia "medico di se stesso", attraverso l’energia dell’ascolto e dell’osservazione che si mettono in atto nel momento del colloquio empatico.

In questa prospettiva, è importante che il terapeuta impari ad essere attento ed in ascolto di se stesso, dei suoi vissuti, attraverso l’auto-osservazione finalizzata ad evitare il rischio di scivolare in un insieme indistinto di processi di identificazione e proiezione, dove non vi sia più distinzione di funzioni, e a garantire l’accesso alla possibilità di ciascuno.

"[...] Osservare il fenomeno mentre accade significa, prima di tutto, focalizzare le emozioni ed i vissuti all’interno del campo visivo che comprende individuo ed esperienza. [...] Osservarsi, quindi, significa creare una distanza tra sé e sé; tra sé, il fenomeno esterno e quello che accade dentro di sé nel contatto con il fenomeno. [...] Nell’esperienza osservativo-riflessiva di ascolto siamo aperti ad un legame positivo con il nuovo, ed è proprio l’atteggiamento ‘ingenuo’ e disponibile dell’osservatore a creare lo spazio necessario affinché il nuovo si manifesti, libero inizialmente dal giudizio concettualizzante. Nell’atteggiamento concettualizzante, invece, siamo di fronte ad un atto valutativo che intende in modo immediato e automatico definire il reale sulla base dei codici acquisiti [...]. Solo nel momento in cui l’osservatore promuove in sé una nuova funzione mentale, che chiameremo ‘percezione riflessiva’, riesce a portare l’evento verso la conoscenza di sé, al di là delle categorie della propria mente." (1).

In una prospettiva che prevede il contatto fra cura e malattia, medico e paziente, è fondamentale accogliere il concetto che mente e corpo vivono in mutuo interscambio, si influenzano a vicenda e sono in rapporto con il mondo circostante.
Per questo, nel colloquio, la comprensione dello stato emotivo del paziente, permette di individuare il fiore che può aiutarlo a superare la sua sofferenza, il suo disagio. E’ inoltre importante comprendere il significato che ha, per il paziente, l’essersi ammalato in una determinata parte del corpo.


Per comprendere il significato del sintomo, oltre a conoscerlo inserito nell’insieme esistenziale dell’individuo, è necessario compiere un successivo passaggio all’interno del pensiero simbolico.
Si tratta di comprendere il significato simbolico che sintomo e organo acquistano inseriti nell’insieme dell’individuo, esaminando quali sono le funzioni che l’organo esplica, quali i collegamenti e le influenze con gli organi vicini.
Tale interpretazione implica la considerazione dello stato d’animo dell’individuo, dell’immaginario che ha di sé e che viene espresso attraverso gli organi del suo corpo così come attraverso i suoi comportamenti, il modo di esprimersi, le sue abitudini, ecc...

E’ interessante osservare quanti modi di dire nel gergo popolare fanno riferimento al corpo e alle sue funzioni: "Mi sono fatto venire un fegato così!" - "Mi farai morire di crepacuore!" - "Hai fegato ad affrontare questa situazione..." - "Tu mi togli il respiro!" - "Questa situazione proprio non la digerisco" - "Mi costa sangue fare questo lavoro", etc.... Nella nostra mente quindi esiste la capacità di rappresentare nell’organo uno stato d’animo, l’interazione con la vita e con il lavoro.

In psicologia il significato simbolico attribuito ai diversi organi del corpo è molto importante ed è collegato alle emozioni e agli stati d’animo, a loro volta risultanti dal rapporto tra l’individuo e i suoi codici ed aspettative.
Quindi, per comprendere l’insieme mente-corpo-emozioni-immaginario, dobbiamo riflettere sui significati che la mente attribuisce simbolicamente ad una emozione e, successivamente, al corpo, oltre ad ascoltare i messaggi che il corpo invia alla mente che ripropongono un particolare stato emotivo e riattivano altri concetti di sé.
Il sintomo, in questa prospettiva, viene letto come il tentativo che il paziente compie per comunicare a se stesso e al mondo circostante un disagio, una sofferenza, che rimane espressa sul piano fisico anche se ha radice nel piano psicologico inconscio. E, viceversa, il piano psicologico comunica attraverso il linguaggio del corpo la sua condizione.
Essere e malessere sono i messaggi psicofisici che ci porteranno a comprendere un disegno esistenziale ampio, legato all’individuo, alla sua storia e alle tappe che deve compiere.

L’osservazione e l’ascolto, durante gli anni di lavoro, mi hanno fatto capire quanto il sintomo sia portatore di disagio, ma anche di un processo evolutivo che non trova spazio per esprimersi all’interno dei codici di vita del paziente.
"[...] E’ come se ogni realtà avesse bisogno di riconoscere e di sapere dove si trova per poi sapere dove andare. E l’osservatore è il catalizzatore di questo orientamento per l’evoluzione. Si conosce mentre sperimenta l’altro e conosce l’altro mentre sperimenta se stesso." (1).
Così il terapeuta diventa catalizzatore di un’evoluzione che il paziente compie a partire dal suo sintomo. Attraverso l’assunzione del fiore il paziente si "apre" stimolando la trasformazione dell’atteggiamento rigido, alla frequenza della conoscenza di sé.

"[...] Fare lo psicoterapeuta significa aiutare l’essere umano a conoscersi più a fondo, accompagnando il proprio e l’altrui divenire e ciò presuppone per lo psicoterapeuta la conoscenza di sè oltre alla competenza tecnica e professionale. Attraverso l’intervento osservativo su di sè e sull’altro lo psicologo, semplicemente nella sua posizione di osservatore, può favorire la trasformazione del limite che spesso imprigiona la creatività dell’individuo e ne causa il malessere." (1). Anche al terapeuta si rivela un’occasione di evoluzione: crescere insieme al crescere della conoscenza che si svolge nell’incontro con il suo paziente.
Egli, infatti, attraverso il suo racconto, grazie alla nostra indagine "umana" ci farà "sentire" dove è presente la sofferenza.
Naturalmente questo implica una grande padronanza della tecnica del colloquio e anche della capacità introspettiva, per ottenere una visione lucida dell’incontro.

2. - Caratteristiche del colloquio clinico empatico: l'empatia come momento conoscitivo che inizia con l'atto del guardare.
Un colloquio clinico volto a comprendere a fondo il paziente implica una predisposizione all’ascolto empatico.
La relazione empatica è un momento imprescindibile dell’osservazione, sia essa terapeutica o meno, perché osservare è partecipare, vivere insieme all’altro ciò che l’altro è e fa. Il livello di relazione empatica fra osservatore e dato osservato, e la consapevolezza delle corrispondenze, permettono all’individuo e al dato di essere maggiormente conosciuti e vissuti.

Il momento empatico della condivisione è quello in cui si dà il più intenso passaggio di energia fra due campi osservativi in collegamento, che nel caso del colloquio sono il terapeuta e il paziente.
"[...] l’osservazione non (è) prerogativa dell’osservatore, non (è) mai a senso unico, ma piuttosto un’esperienza biunivoca, multipla e contemporanea a quanti sono i soggetti in gioco [...] Ciò che distingue l’osservatore "puro" dall’osservatore- osservato è solo la consapevolezza del ruolo e dello scopo che il primo darà all’esperienza. Forse non vi sono altre differenze. L’empatia è sperimentata da entrambi. La si può rimuovere, negare, ma non è possibile evitarla. Conviene esserne consapevoli [...] L’elaborazione e l’analisi conoscitiva dell’esperienza avvengono successivamente al movimento empatico. Nell’ottica dell’osservazione evolutiva l’identificazione empatica è il presupposto per l’accoglimento dell’esperienza da cui poi separarsi attraverso la funzione riflessiva [...]

[...] Il duplice progetto conoscitivo dell’osservazione terapeutico-evolutiva ritaglia una figura di osservatore molto articolata e complessa, che mette in gioco il soggetto a più livelli, nella sua emotività, nei suoi valori e nella sua struttura intellettuale e razionale. Lo stesso vale per l’oggetto osservato [...]
L’osservazione è momento di crescita per l’osservatore e parallelamente una possibilità di evoluzione per il fenomeno
La consapevolezza che l’empatia è il primo passaggio della conoscenza e della terapia deve essere accompagnata dalla consapevolezza che ci dobbiamo poi distaccare da vissuto che il paziente ci ha trasmesso e coglierne l’immagine di insieme, come se si stesse compiendo un volo in cui abbiamo una prospettiva globale del panorama che stiamo vedendo.

Il nostro scopo è cogliere dove il flusso dell’essere ha subito delle strozzature e liberare i canali; aggiungere la vibrazione del fiore che attiva quella funzione psicologica necessaria, dopo aver colto quale particolare visione ha il paziente di sé che non gli permette di portare a compimento i suoi impulsi evolutivi.
Perché questo avvenga bisogna che il terapeuta osservi, con una partecipazione silenziosa e attiva, che non cerchi di riportare i dati che il paziente fornisce a conoscenze già note, ad esperienze già concettualmente assimilate.

Il terapeuta può sentirsi a disagio per questo e non reggere la tensione che prova quando non si sente adeguato al suo ruolo, quando, più che intervenire, deve ascoltare e anche "dubitare".
"[...] Se decidiamo di rimanere in contatto con la realtà senza definirla, proviamo generalmente una sensazione di disorientamento. I concetti hanno un valore [...] relativo al contesto culturale ed epocale, quindi mutano come le culture nel tempo e nella spazio. Tuttavia noi attribuiamo al concetto un potere conoscitivo assoluto [...]. Sospendere l’atteggiamento concettuale significa [...] vivere il momento di disorientamento per accedere a nuove possibilità di riorganizzazione dell’esperienza.

II malessere dell’anima è spesso legato alla rigidità dei concetti della persona che bloccano il fluire della vita [...]. La sospensione del concetto [...] è la possibilità [...] di sbloccare una situazione legata a concetti di vita ormai inadeguati [...].
La terapia trova in questa possibilità il suo significato più autentico.
Se uno psicologo non riesce ad osservare e descrivere una situazione, ma la concettualizza, non può aiutare il paziente a liberarsi dalle proprie concettualizzazioni (1).

In quel momento anche per il terapeuta è necessario distaccarsi dalle proprie emozioni e vedere il suo coinvolgimento emotivo come qualcosa che produce conoscenza di sé e dell’altro in un processo di distinzione di sé dall’altro.
Così come deve accettare il paziente, il terapeuta deve accettare di vedere se stesso e il proprio filtro di lettura, non identificarsi né con sé né con l’altro, per trovare la comprensione in una posizione di massima ricettività.
Anche il paziente viene chiamato all’osservazione e all’ascolto di sé quando viene posto di fronte alle tavole colorate del kit "Le qualità dell’anima" del Dott. Paolelli.

3. - L'atteggiamento giudicante, un’insidia che il terapeuta incontra nel suo percorso
Ognuno di noi ha dei preconcetti e dei concetti costruiti nella propria esperienza di vita che condizionano nella valutazione delle situazioni e nell’interpretazione che ad esse viene data.

Giudicare non è conoscere.
Il paziente può essere per noi fastidioso o mostrare aspetti che vanno a urtare con i nostri parametri di giudizio, le nostre categorie morali o concettuali, le nostre aspettative. In questo caso rischiamo di voler indurre il paziente ad agire seguendo le nostre idee.
E viceversa, il paziente ha dei concetti di terapeuta che possono portarlo a essere giudicante e a proiettare sul terapeuta svalutazioni o valorizzazioni arbitrarie, non obiettive.


L’ascolto prevede lo sviluppo della capacità di contenimento dell’atteggiamento giudicante.
La terapia come processo prevede anche di cogliere quali sono i limiti, le difficoltà e gli errori che influenzano il paziente nel corso della sua condotta di vita.
Accettare di vedersi in questi aspetti negativi non è facile e, se prevale un atteggiamento persecutorio, dopo quello giudicante, diviene addirittura impossibile riuscire a vedersi, ad accettare "ciò che non va".
Il difetto e l’errore vengono iscritti nella sfera delle "cose brutte", delle "cose sbagliate" e sia il paziente che il terapeuta possono vivere sensi di colpa, rifiuti di se stesso, disistima e avere comportamenti e pensieri punitivi.
L’atteggiamento giudicante ostacola la possibilità di comprensione di sé.

4. - La consapevolezza del terapeuta: attivazione della funzione riflessiva
L’incontro e l'analisi dei propri vissuti per una più ampia conoscenza dell'altro
Il  sintomo può quindi essere letto come scelta inconsapevole dell’individuo che non si permette di cogliere delle smagliature nella sua condotta di vita, di vedere dei difetti o di avere delle insoddisfazioni e preferisce, inconsciamente, avere un malanno fisico, che lo libera da colpe e dalle svalutazioni e che gli consente di realizzare, sempre in modo inconscio, un cambiamento nella sua vita.

Immaginiamo un uomo che è sempre stato convinto che il suo ruolo stia nella realizzazione professionale e che ad un certo punto provi, a livello inconscio, una caduta d’interesse per questa sua attività.
Non sarà certo nella situazione di accettare un simile vissuto!
Penserà di non poter cambiare il suo modo di essere e si giudicherà male, un debole o uno sfaticato o un irresponsabile.
E se anche egli fosse consapevole della legittimità di modificare la sua vita, le pressioni dell’ambiente esterno potrebbero essere così forti da non fargli trovare una via d’uscita.
In entrambi i casi scatterà in lui una difesa inconscia, tenterà così di rimuovere il conflitto interiore. A seconda del livello di tensione evolutiva potrà trovare la soluzione in un malanno fisico e fermarsi, gestendo la rigidità del suo giudice interiore che gli vieta di trasgredire la sua legge!

Naturalmente di queste "leggi" ne siamo tutti permeati: regole di vita, modi di essere e di pensare, credenze che divengono il nostro codice, vigilato dal super-io giudicante.
L’atteggiamento riflessivo consente di superare questa visione e di concepirsi parte di un cammino di evoluzione dove a vecchie norme di vita se ne sostituiscono nuove, che realizzino la verità del nostro sentire più profondo.

"[...] negli individui con una storia personale carica di sofferenza, gli automatismi di tipo difensivo sono più marcati e più difficili da fermare.
[...] la risposta condizionata automatica [...] porta con sè una tendenza alla ripetitività che ha lo scopo di isolare e incapsulare il nucleo sofferente.
La funzione riflessiva [...] avvicina l’individuo ai suoi aspetti più profondi [...]
Se l’individuo [...] ha un atteggiamento giudicante molto severo, non sarà facile per lui soffermarsi sulle proprie risposte per capire ciò che sta vivendo, ricercando e accettando tutto ciò che può scoprire di sè: sentimenti, emozioni, difficoltà, eventuali errori o intuizioni intelligenti.
[...] Purtroppo, parallelamente all’idea del difetto, in molti casi si scatena un atteggiamento persecutorio-svalutante nei propri confronti.
[...] Accorgersi invece che il vero difetto si nasconde nel potere distruttivo della funzione giudicante del super-io, è un ulteriore passo avanti che l’individuo può compiere verso la possibilità "riflessiva" e creativa per sè.
Infatti, se le risposte sono soprattutto difensive e protettive rispetto ai concetti ideali di bene e male, il soggetto si preclude la possibilità di conoscere veramente se stesso, restando intrappolato nella necessità di giudicarsi o di difendersi dal giudizio.
[...] Bisogna lasciare agire la parte libera che esiste, seppure in modo latente in ognuno di noi [...] per muoversi verso una "vera soluzione salvifica".
[...] La parte libera si può permettere di incontrare il disagio perchè da esso trae conoscenza e spunti per la risposta creativa. In questa prospettiva le risposte creative risolvono anche il bisogno di affermare il proprio valore. Certamente non come fine ma come ulteriore crescita nel rapporto con sé." (1).

5. - Conclusione
Accostarsi alla vita e a quel particolare aspetto della vita che è l’insieme terapeuta-paziente con empatia, comprensione dei vissuti emotivi, atteggiamento osservativo e riflessione, implica il cambiamento di un immaginario ben preciso della relazione fra uomo e ambiente a cui è correlato un relativo sentimento. Ho trattato l’argomento nell’opera già citata, a pagina 55 e 56, di cui riporto alcuni passi:
"[...] Sin dall’infanzia egli (l’individuo) viene educato a sovrapporre ad un fatto un concetto, e questa abitudine lo separa dal mondo, proprio perché egli deve concettualizzarlo.
In questa modalità conoscitiva "tradizionale", "categoriale", la realtà viene concepita come qualcosa di esterno all’individuo [...].
La realtà percepita viene fermata dall’individuo ad una certa distanza da sé ed è sempre l’individuo che assume il compito di muoversi verso di essa con lo scopo di conferirgli una forma.

[...] In questo modo [...] ha la sensazione di padroneggiare ogni realtà e, nel rendere la conoscenza uno strumento di dominio, esorcizza la paura inconscia della potenza della natura [...].
Il  concetto di natura ricca, potente, "creata per", ha alimentato la sovrapposizione tra l’idea di sostentamento e quella di consumo. Ciò ha comportato l’identificazione del soggetto con il ruolo di padrone-consumatore-distruttivo.
[...] Si tratta di un atteggiamento deterministico che ha lo scopo di portare il soggetto a conservarsi pieno attraverso l’appropriazione dell’esterno.
Tale posizione svela la presenza inconscia nell’individuo di un’idea di vuoto interiore, di miseria e povertà.
Soddisfare il bisogno di pienezza diviene per l’individuo il senso del suo esserci nel mondo, esserci confuso con l’appropriarsi.
[...] Questo atteggiamento nei confronti della natura è speculare alle forme del pensiero che categorizza l’esperienza, dove l’individuo applica sul fenomeno lo stesso monopolio, assumendo la stessa posizione di dominio.

Una nuova crescita della coscienza sta conducendo oggi l’individuo ad una modificazione della sua posizione da "regnante". La scoperta della limitatezza delle risorse naturali implica di necessità l’interazione rigenerativa uomo-natura.
Questo nuovo modo di relazionarsi trova il suo corretto sviluppo solo contemporaneamente all’accrescimento della conoscenza di sé, riflessa nella natura stessa.
In questa seconda posizione, nel "sentimento di appartenenza", l’uomo instaura con la natura una relazione di reciprocità, un rapporto in cui soggetto e oggetto sono volti intercambiabili della medesima realtà.
L’individuo scopre così la propria natura selvaggia, primitiva, carica di ricchezze, non si confonde con l’identità esclusivamente categoriale, ma riconosce in sé un potenziale altro.
[...] Questa seconda modalità prospetta un rapporto in cui l’uomo interagisca con la natura, il soggetto con l’oggetto, l’osservatore con il fenomeno.
I due mondi allora si incontrano, si ascoltano, entrano in rapporto e per questo si modificano e nella modificazione reciproca si conoscono, trasformando il modello concettuale di base della relazione."

In questa nuova prospettiva la terapia e la prescrizione con i Fiori di Bach nasce spontanea dall’ascolto della melodia dell’altro in noi, in un continuum che va dall’essere che vibra all’armonia del fiore, dalla vibrazione del fiore all’armonia dell’essere.

(1) SERINA C. - L’universo riflesso. Viaggio nell’occhio virtuale dell’osservatore. FrancoAngeli Editore, 1998.



Il neretto di alcune frasi è stato aggiunto da Antonella Napoli per facilitare la lettura




Per riferimento bibliografico:
SERINA C. - Osservazione empatica e ascolto riflessivo nel colloquio clinico. Atti del 3° Congresso A.M.I.F. La Med. BioL, Suppl. al N° 2, 2001.

D.ssa Clara Serina, Psicologa, Psicoterapeuta, Naturopata - Presidente C.R.E.d.E.S. — Centro Ricerche Evolutive dell’Essere di Milano Via Palermo, 16 20121 Milano

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